Capitolo 1
Se esistesse un modo per descrivere il silenzio del fiume, lo farei. Forse esiste ma non sono bravo con le parole.
Preferisco godermi il silenzio e osservare, ci vuole pazienza nell’osservazione, non è un buttare l’occhio, o un guardare. Ed è parzialmente legato al senso della vista, perché osservare va oltre ciò che si vede, potrebbe assomigliare di più a uno svelare.
Osservo, non guardo. Svelo, scopro, spoglio qualcosa da tutto quello che conosco e vado oltre, quello che credo di sapere si perde, diventa irrisorio.
Il mio amico Raphael lo chiamerebbe lo “Spirito” della natura, ma non trovo importante dare un nome a ciò che accade durante questo svelamento, perché sarebbe come chiudere l’immensità della bellezza dentro una scatola di credenze. Un vero sacrilegio.
Così, mi tengo ben lontano dal trovare le parole per questa magnificenza e mi godo il silenzio dell’osservatore.
Sono appostato in questo scorcio di fiume da una settimana, ho ricoperto la tenda con foglie cadute e terra, mangio fagioli in scatola e pane in cassetta senza scaldare niente, il fuoco mi farebbe scoprire, per pisciare e tutto il resto scavo buche come un gatto per lasciare meno tracce possibili della mia presenza, gli animali che si sono allontanati quando hanno sentito al mio arrivo, stanno tornando.
Accade sempre con le stesse tempistiche: arrivo in un sito, esamino nei dintorni se c’è vita, come impronte, terra smossa, escrementi, eccetera, e se ci sono tutte le caratteristiche che preannunciano un luogo abitato, preparo il mio bivacco e lo mimetizzo con la natura circostante, da quel momento in poi so che ci vorranno almeno due-tre giorni, prima che gli animali ritornino o escano dai loro nascondigli. Intanto preparo le macchine fotografiche con l’obiettivo adatto e regolo l’illuminazione a seconda dell’ora del giorno e della notte.
Finora ho visto solo topi, ma è un buon segno, i predatori arriveranno presto: gufi, falchi, poiane, volpi, e se sono fortunato anche qualche enorme luccio perca, o mastodontica carpa usciranno dall’acqua per rimediare un boccone. I topolini si spingono spesso sulle rive del fiume, con quella mania per la pulizia e per rimediare qualche radice succulenta.
Intanto osservo e divento parte del silenzio, non sono nemmeno in attesa, sono parte di tutto quello che mi circonda, il mio corpo si espande. Sento il vecchio daino che si avvicina, mastica erba secca, dietro di lui arriverà a momenti il resto della famiglia. I miei sensi sono vigili, acuiti, non che sia in allerta, tutt’altro, io stesso sono il daino e la terra che calpesterà, o l’erba che ruminerà. Sono le foglie delle betulle che cadono piano, svolazzano lente e si posano. Gli agenti atmosferici, finora, sono stati clementi, ma sarei potuto essere anche vento e pioggia con la stessa devozione.
La coppia di cigni continua la sua danza d’amore, è a portata di click da quando sono arrivato, credo di avere una cinquantina di scatti, è una sofferenza non scattare ulteriori foto, soprattutto in questo momento, mentre scivolano sull’acqua ricoprendosi di attenzioni. Ma devo tenere risparmiate le batterie per i predatori, dai miei calcoli arriveranno al crepuscolo.
Apro una busta di cereali cotti al vapore e mi accingo all’ennesimo pasto insipido e freddo, pazienza.
Sono uno che si adatta, ho bisogno di poche comodità, so che quando sarò a casa davanti al computer tutto questo mi mancherà, perciò mastico cereali insipidi, ascolto il daino masticare e osservo i cigni amoreggiare, eppure, il mio pensiero vola sempre da te.
Tempo fa m’incazzavo con me stesso, e ti scacciavo con prepotenza, ma invece di sparire diventavi un’ossessione, ora ti lascio prendere posto tra i miei sensi, ti lascio portare scompiglio nel il mio ordine, e permetto ai tuoi occhi chiari e al tuo sorriso da bambina di fare luce dentro il mio buio…
Capitolo 2
Che voce ha la notte?
Me lo chiedo ogni volta, e ogni volta mi sorprende.
La notte è un insieme di voci che diventano una. Assomiglia tanto alla funzione religiosa di un funerale mentre si aspetta l’arrivo della salma e al sussurro di fondo di chi non riesce a stare zitto, nemmeno in certe occasioni, e poi c’è l’urlo agghiacciante o il pianto straziante di chi il defunto l’aveva amato.
L’arrivo della notte in questi luoghi lontani dagli agglomerati urbani è una vera funzione religiosa, a volte inquietante, paurosa e opprimente.
I rapaci notturni sono appostati, sono arrivati da poco sbattendo le ali poderose e lanciando urla. Oramai hanno capito che non sono pericoloso e accettano di farsi osservare, mentre loro osservano me.
Credo di aver capito la loro tattica: scatenano nella preda una paura così profonda e incontrollabile che spinge le piccole creature a scappare uscendo dai loro nascondigli.
Hanno un istinto che va oltre la conoscenza cellulare, credo sia anche dovuto a una sorta di intelligenza insita, come se sapessero manipolare la psiche delle prede.
Sono spettacoli che solo chi ha potuto assistervi riesce a comprendere.
Sembra una danza della morte.
E, così come il rapace sa di innescare l’ignavo meccanismo automatico della paura nella sua preda, allo stesso modo, la preda, sa che la sua paura e la sua ignavia sono necessari al cerchio della vita e della morte.
E la funzione religiosa del crepuscolo continua la sua sacralizzazione dell’ombra, dell’inconscio, dell’oblio.
Nemmeno la pigra luna gibbosa mi è amica, si alza tardi in questo periodo dell’anno e si nasconde dietro le betulle, creando ulteriori ombre e paure ignoranti, le peggiori.
La paura ignorante è la stessa dei topi che, invece di rimanere al sicuro nella tana, scappano fuori rendendosi visibili prede per gli artigli degli uccelli notturni. È una paura che non ha senso, non ha logica, né intelletto, ma è la più terribile: la paura delle ombre, degli spiriti, di qualcosa di immateriale, spaventoso… la paura dei demoni e dei mostri, la paura della morte.
Non importa quanto tempo io passi nei boschi, di giorno sono in paradiso, quando scende la sera cado all’inferno.
Ogni notte scivolo in quella che sembra essere una perdita di controllo e combatto con la voglia di scappare, e ogni notte osservo questa paura assurda creata da chissà quale follia della mia mente.
Ecco perché ho tenuto buone le batterie per la notte, sapevo che le mie mani avrebbero tremato continuando a vomitare foto mosse, come un principiante inetto.
Ho il respiro corto e superficiale, mi sento il cuore in testa.
Il sibilo arriva puntuale come ogni notte da quando sono qui, potrebbe essere un serpente in ritardo per il letargo, anche se ci credo poco, non ci sono serpenti qui.
Ancora, è vicino, sembra che ripeta il mio nome: «Ffffabiooo».
Sto impazzendo, ho la tentazione di accendere la luce, ma se lo faccio mi fotto la possibilità di immortalare la caccia dei rapaci, dovrò cambiare sito e ricominciare tutto da capo.
«Ffffabiooo».
«Non sei reale. Non esisti» sussurro con un filo di fiato e rimango fermo immobile nella mia postazione.
Ho il corpo scosso dai tremori come un chihuahua, il sudore mi entra negli occhi, rischio di perdere tutto il lavoro di una settimana di appostamenti.
No, non posso, cerco di respirare normalmente, chiudo gli occhi e provo a tornare con i piedi per terra, sto perdendo la testa.
E nel momento in cui penso di non farcela, arrivi tu, come una luce, un’alba. S’illumina leggermente lo schermo del cellulare, «come te la passi?»
Il mondo cambia, i mostri ritirano gli artigli, il mio cuore torna nel petto, sento caldo, smetto di tremare, ho il controllo, sorrido mentre il tuo viso prende il posto delle ombre fameliche, sei l’angelo che mi riporta a casa e scatto foto senza fermarmi mentre una civetta agguanta un povero topolino, c’è buio ma lo riconosco, è il topo che osservo da giorni. Domani non uscirà nessuno da quella piccola tana, la paura l’ha ucciso. La civetta lo porta sul tronco e lo fa a brandelli con il becco appuntito.
Ero quel topo. Ora non più, sei arrivata tu.
Capitolo 3
Un’altra aurora, torno in paradiso dopo aver guadato il fiume infernale per tutta la notte.
Il materiale è sufficiente, potrei rimanere ancora, ho provviste e batterie per altre 48 ore, ma basta così.
Ho smontato il rudimentale accampamento, mi avvicino alla tana vuota e ringrazio il mio amico e il suo sacrificio, lascio delle noccioline come dono e lo saluto con un «Namasté, fratello».
Saluto anche il fiume, le betulle, i canneti, e ogni abitante dei dintorni per avermi accettato come osservatore. So di essere stato più osservato che osservatore, perciò mi inchino alla fiducia concessa. Isso tutto in spalla, raccolgo ogni cosa e lascio il bosco immacolato così come lo avevo trovato.
Torno da dove sono venuto, piano, non ho fretta. Ho un’ora e mezza di cammino per arrivare alla Jeep, mi godo il bosco.
Solo Raphael conosce la mia paura, nessun altro, non potrei spiegarla.
Chi non mi conosce bene crede che per me sia facile il mio lavoro, “sei un uomo selvaggio” mi dicono “per te è facile”. Se sapessero che mi cago addosso ogni notte.
Eppure, non mi fermo, continuo gli appostamenti e mi butto tra le braccia della paura. Non so se sia coraggio o follia, forse la seconda.
Ripenso al messaggio che mi ha riportato la centratura, ripenso a lei.
Non ho risposto, tanto lei non se lo aspetta. Sa che non rispondo mai. Sono in mezzo al bosco, penserà che non arriva la connessione.
E poi, cosa potrei rispondere?
Come me la passo?
“Ehi, ciao, tutto bene! Non mi lavo da una settimana, piango come un bambino ogni notte perché ho paura del buio e ho le mutande attaccate al culo perché me la sono fatta addosso. Ah, e credo di avere le pulci… Tu come stai?”
Meglio non rispondere.
In realtà, se rispondessi le scriverei così:
“Grazie amore mio, mi hai salvato ancora dal mio buio, riesci a riportare la luce…”
Ma che schifo! Mieloso e dozzinale.
No, non rispondo, non adesso.
Però le dico grazie con tutto il mio essere. E spero che qualcosa le arrivi…
Capitolo 4
Mi siedo su un sasso, non sono sicuro di voler tornare in città, a parte la doccia calda, nessun altro comfort potrebbe sostituire questa bellezza.
È mattina presto, c’è tempo, rimango ancora un po’.
L’aria è rarefatta, c’è odore di neve, il grigiore tutto intorno dà ragione al mio sentire.
Mi sembra di essere in un mondo parallelo, un’altra dimensione.
Sono su questa Terra eppure mi sento altrove.
Mi faccio schifo da solo, la puzza passa attraverso i vestiti, lo decido in un attimo, torno sui miei passi, mi avvicino di nuovo al fiume, mi spoglio completamente e mi tuffo!
L’acqua è gelida, un urlo mi esce dalla gola senza che riesca a trattenerlo in nessun modo, gli uccelli volano via spaventati, i cigni innamorati si allontanano, continuo a urlare, e rido!
Mi lavo le chiappe e le ascelle, il viso e tutto il corpo sfregando energeticamente e continuando a emettere suoni incontrollabili dalla gola per via dell’acqua fredda, e continuo a ridere.
Esco tremando e battendo i denti, mi asciugo in qualche modo e indosso un cambio, l’unico che avevo portato.
La mia pelle comincia a scaldarsi, è una sensazione paradisiaca.
Raccolgo i vestiti sporchi e li metto nello zaino.
Mi sento benedetto, vivo, euforico, respiro a pieni polmoni, mentre pigri fiocchi di neve cadono dal cielo.
Sono completo, eppure, vorrei che tu fossi qui per poterti raccontare della bellezza di cui sono umile spettatore.
Ma ho deciso che non posso avere distrazioni, ho deciso che è meglio la solitudine, e senza preavviso ne sento il peso.
Forse, non ho capito niente e, in questo istante esatto, ne ho la certezza.
Sono un’idiota!
Capitolo 5
Sono fermo al parcheggio, le mani strette al volante, guardo la strada senza vederla, il crepuscolo sta arrivando puntuale.
Ho freddo.
Il freddo del bagno nel fiume era un freddo rinvigorente, di superficie, e dentro sentivo la forza del fuoco.
Ora il freddo lo sento in profondità, dentro le ossa, e mi immobilizza, mi spegne.
Non so cosa sia, non riesco a capire, sento la fatica di lasciare il bosco, sento che tornare significa tornare a una realtà che non mi piace, e non riesco a farmene una ragione.
Cos’è che mi manca?
Cos’è questo freddo?
Avvio il motore che parte a fatica borbottando, sembra mio nonno quando si lamentava di mia nonna, non avendo il coraggio di rispondere, borbottava parole incomprensibili sotto i folti baffoni bianchi mentre eseguiva gli ordini di sua moglie.
Che strano questo ricordo, li rivedo entrambi, lui era un vero montanaro o, almeno, il tipico uomo che ci si aspetta di trovare in un borgo di montagna. Era massiccio Archimede, aveva mani grandi e robuste, poteva arare un campo con il solo uso della vanga e con un braccio solo, senza perdere una goccia di sudore e farlo sembrare un gioco da ragazzi. Era perennemente imbronciato, e poteva dire “ti voglio bene” con lo stesso tono con cui ti mandava a fanculo.
Non ripenso ai miei nonni da anni. Ho tagliato i ponti con tutto il mio passato o, perlomeno, lo pensavo prima di stasera…
Cosa mi sono perso?
Cosa sto rifiutando di me?
Capitolo 6
Mia nonna Clementina di clemente non aveva proprio niente, non si disubbidiva e non si sgarrava, pena: un ceffone che mi faceva fischiare le orecchie per mezz’ora. Si rigava dritti.
Ma non avevo paura delle botte, era più la delusione che si dipingeva sul suo viso quando, incredula e pronta a colpire, ripeteva: “non è possibile, ma cosa hai fatto? Tu non sei così idiota!”
Perciò, proprio perché si aspettava che io non fossi un idiota, che prendessi dei buoni voti a scuola e che avessi un comportamento corretto e responsabile, mi metteva nelle condizioni di pensare di essere davvero bravo a scuola e responsabile nella vita, in quanto parte della mia natura.
Questo mi ha dato molta fiducia nelle mie capacità, non avevo bisogno di credere in me stesso, mi veniva naturale, non c’erano altre opzioni. Ero in gamba, punto. Tuttavia, non sapevo cosa significasse essere un bambino. Sono sempre stato vecchio.
Ancora adesso, prima di fare qualche colpo di testa, ci penso molto bene, analizzo a fondo e, alla fine, prendo sempre la decisione più responsabile. Per me e per le persone coinvolte.
Niente colpi di testa.
Niente salti nel vuoto.
Soprattutto…
niente amore folle.
Più qualcosa mi scombussola e mi crea confusione, principalmente emotiva, e più mi allontano da tal cosa.
Niente distrazioni, niente idiozie, niente follie insensate, si riga dritti!
E lei è la cosa più folle che potessi trovare nella mia vita, perciò, è meglio evitare inutili sofferenze.
Tuttavia, la lascio dimorare dentro di me, come se fosse uno dei miei organi vitali, come l’aria pulita lontano dalla città, come l’alba dopo le mie notti tormentate… lei non lo sa, e forse non lo saprà mai!
Capitolo 7
Mi blocco per qualche secondo, ripenso a quelle che sono regole ferree per me, da sempre.
1. Evitare sofferenze inutili.
Eppure soffro come un cane perché lei mi manca da morire!
2. Evitare distrazioni.
Anche in questo caso mi è impossibile perché lei è un chiodo fisso H24!
3. Non fare l’idiota.
Faccio l’idiota ogni notte a causa della paura del buio.
Mi sembra di vedere il volto di Clementina, mi guarda attonita e sorpresa, vorrei che fosse qui e che mi mollasse un ceffone da farmi fischiare le orecchie per mezz’ora.
Sono ancora fermo al parcheggio, non me la sento di guidare, la neve continua a scendere e sta imbiancando la strada e il bosco di betulle d’argento.
Il buio stasera non sembra così spaventoso, metto la sicura alle portiere e prendo una delle coperte che tengo sempre sui sedili posteriori.
Mi mangio un pasto decente grazie allo scalda vivande da auto, ho una zuppa di legumi in scatola e del caffè solubile, una cena da re!
Spengo il motore e provo a dormire.
Un cervo dal mastodontico palco attraversa la strada per brucare l’erba ai margini del bosco.
Allungo la mano per prendere la fotocamera, mi fermo, e in un attimo decido di godermi la bellezza di quel cervo senza volerla immortalare per forza.
Sono in contemplazione, in adorazione, mi godo il momento senza pensare a luce e angolazioni. Sono solo un uomo che osserva la meraviglia della natura.
Sì, sono solo un uomo, non devo dimostrare niente, eccellere in niente, controllare niente.
Piango, posso piangere, posso essere vulnerabile, posso lasciare andare il controllo, posso amare…
Capitolo 8
Sono davanti al computer, ho davvero del materiale interessante, il tipo che mi ha commissionato le foto mi ha risposto dopo nemmeno un’ora, al telefono sembrava fuori di sé dalla gioia. Non sono stupito, so di essere un’eccellenza nel mio lavoro.
I pazzi come me che rimangono appostati per giorni ad aspettare lo scatto perfetto, sono sempre meno. Posso farmi pagare profumatamente.
Faccio un giro, la città è addobbata per le feste, mi piace questo periodo dell’anno, Raphael mi aspetta al bar della piazza, forse.
Quell’uomo ha un concetto del tempo tutto suo, a volte i suoi 2 minuti possono essere 2 ore, altre volte il contrario, perciò, è possibile che mi rinfacci un ritardo che non esiste, come è possibile che mi faccia aspettare tutto il giorno.
-Ti aspetto da più di un’ora!-
Ecco, come gli spiego che mi ha chiamato 15 minuti fa per dirmi che mi aspettava al solito bar?
-Sei peggio della mia ex fidanzata!-
-E’ oggettivamente impossibile, mi hai chiamato…-
-Smettila di inventare scuse, siediti! Cosa bevi? Che te lo chiedo a fare… Signorina, il mio amico è arrivato, due caffè, grazie!
Com’è andato l’appostamento?-
-Bene! Il cliente era entusiasta.-
-Su questo non ho dubbi, dico col buio, com’è andata?-
-Al solito.-
-Non credi sia il caso di cambiare lavoro?-
-Ma stai scherzando? Preferisco farmela sotto tutte le notti!-
-Contento tu.-
-Il caffè fa più schifo del solito. Al fiume nevicava. Sono innamorato.-
-Sì, lo so, ma la cameriera è davvero carina, prima o poi le chiederò di uscire, mi serve tempo… Sei innamorato?-
-Sì.-
-La conosco?-
-No, non credo.-
-E’ una notizia grandiosa!-
-No, per niente.-
-Sì invece! L’amore ti cambia, amico mio, ti stravolge la vita, ti…-
-Ti distrae, ti fa perdere il controllo, ti fa diventare un idiota!-
-Anche, ma in senso buono!-
-Ho scoperto che solo se penso a lei riesco a non farmi inghiottire dal buio e riesco a rimanere lucido. Devo a lei la buona riuscita del mio ultimo lavoro.-
-E ti sembra poco?-
-Sono in giro per il mondo sei mesi all’anno, in luoghi spesso irraggiungibili, come faccio a tenere in piedi una relazione?-
-Non sono cose che si possono prevedere, non stai organizzando un appostamento. La relazione non si può pianificare, accadrà quello che deve accadere.-
-Non sono un fatalista, è una relazione impossibile.-
Non gli darò soddisfazione di dargli ragione, ma una flebile speranza ce l’ho, già ammettere di essere innamorato è un grande traguardo per me.
Capitolo 9
Faccio foto commerciali, natalizie, anche banali.
Ai cani che incontro per strada, a coppie mano nella mano, agli addobbi di Natale, alle strade, ai piccioni…
Non avevo mai colto questa bellezza nelle banalità, prima d’ora, tra l’altro questo tipo di fotografia va a ruba in questo periodo.
C’è gente che compra addirittura l’esclusiva, sotto le feste lavoro sempre tanto ma mai così, i clienti mi cercano e mi offrono più del prezzo di listino per aggiudicarsi uno foto col mio nome.
Sono pieno di inventiva, di idee, ho l’ispirazione che mi esce dalle orecchie, sono stracolmo d’ispirazione!
Prima la raggiungevo solo in mezzo alla natura, ora vedo la bellezza ovunque.
Ho fatto addirittura un po’ di scatti a Raphael mentre sorseggiava il caffè, queste le vendo come il pane, il suo aspetto esotico piace alle donne.
Infatti la cameriera del Cafè in piazza gli lancia certe occhiate… Le faccio una foto, la chiamo e gliela faccio vedere, lei scoppia a ridere, è venuta bene, anche questa andrà a ruba, la cameriera innamorata è un must!
Comincia a fare freddo. Annuso l’aria.
-Stanotte nevica.- Dico con estrema convinzione.
Il mio amico è silenzioso, è sempre un po’ triste a Natale.
-Hai risposto a quella povera donna?-
-No, non so cosa scrivere e non so se è il caso di alimentare false speranze.-
-False speranze, wow! Scendi dall’albero, Tarzan! Ti stai solo cagando addosso, ammettilo!-
Non è solo triste, è anche stronzo a Natale!
-Sì, ok, non ho nessun problema ad ammetterlo.- non ho mai avuto problemi ad ammettere le mie paure, almeno con lui, e lo sa benissimo, c’è qualcosa che non va, -Cos’hai?-
-Mi sento solo…-
Si sente tanto il suo accento spagnolo stasera.
-Torno a casa. Sono stanco di questa vita, ho bisogno di ritrovare le mie radici, di capire chi sono.-
Raphael aveva ancora una famiglia, il padre, la madre, e una ex moglie. Si erano sposati a vent’anni e avevano dato alla luce un bambino bellissimo, che ora era un uomo di 30 anni.
-Torno da mia moglie, mi ha scritto ieri, Tobias sta per farci diventare nonni. Sono quasi nonno, capisci? E sto qui dall’altra parte del mondo a fare lo scemo con ogni donna che incontro. Mi manca la mia famiglia, da morire, amico mio.-
-Hai una famiglia meravigliosa, perché sei ancora qui a parlare con quell’egocentrico del tuo amico Fabio, invece di essere già sull’aereo che ti porta a casa?-
-Non lo so, forse volevo solo la tua benedizione.-
-Ce l’hai, che cazzate stai dicendo?-
-Fabio, lascia che l’amore entri nella tua vita, dammi retta. Quella donna potrebbe essere la tua famiglia, quella famiglia che non hai avuto.-
-Non voglio fare soffrire nessuno.-
-Tu, hai paura di soffrire, forse temi anche per lei, ma sei tu che hai paura del buio. Lasciarsi andare all’amore è come una notte buia e spaventosa, la peggiore che potrai mai vivere in un appostamento nel bosco. Per paura di soffrire ti sei scordato la gioia dell’amore. Io torno da Tobias e da Maria, ma tu torna ad amare.-
Capitolo 10
Voglio affrontare questa paura del buio, voglio impazzire di paura, andare talmente fuori di testa da rinsavire.
Voglio vederla in faccia, capire le sue origini, esorcizzare il demone!
È mattina presto, sono nel bosco.
La zona è lontana dalla civiltà, lontana da paesi, città, sentieri percorribili, e dalla possibilità di incontrare un altro essere umano.
Piantare la tenda è stata un’impresa, ho dovuto ripulire lo spazio da sassi e rami caduti, per poi creare un bivacco comunque in pendenza.
Saranno giorni sereni, non ci sono perturbazioni, ma non rimarrò a lungo, tre giorni al massimo, fa troppo freddo.
Osservo la zona, non sembrano esserci segni del passaggio di cinghiali o lupi, va bene buttarsi tra le braccia di Madame Paura, ma fare l’idiota no.
Non è un posto particolarmente bello, gli abeti sono spelacchiati e molto fitti, sembrano una famiglia numerosa, troppo numerosa, costretta a dividere un mini appartamento. Stressati esauriti e infelici.
Bene, ottima zona per affrontare le proprie paure.
Lo strato di neve è un velo di ghiaccio, dev’essere caduta ieri sera prima che le temperature si abbassassero.
Mi faccio un giro nei dintorni.
Il telefono è spento, ho portato una piccola Nikon, ma solo perché la macchina fotografica è un’estensione del mio braccio, ma non sono qui per lavorare.
Mangio un panino seduto sul tronco di un albero caduto, e non penso a niente.
Chiudo gli occhi.
Nessuna distrazione.
Apro gli occhi, uno scricchiolio a ore nove, mi metto in ascolto.
Sono passi.
-Ehi tu! Che ci fai sulla mia terra!-
Sono scattato in piedi, ho guardato l’uomo a pochi metri da me, è alto e magro, il viso coperto da una folta barba grigia, un logoro berretto di lana e una scure nella mano destra…
Capitolo 11
Sto seguendo l’uomo senza fiatare, con quella scure è meglio non contraddirlo.
-Raccogli i tuoi stracci e vattene!-
Sono tentato di rispondere “sì, signore!”
Ma non lo faccio, quell’uomo mi sta dando l’occasione per non affrontare le mie paure, sarebbe così facile andarsene e dare la colpa al vecchio con la scure.
Invece, dandomi subito dopo del pazzo e dell’idiota, ho detto: -Mi scusi se mi permetto, ma vorrei poter rimanere solo per stanotte. Sono qui per superare definitivamente la mia paura del buio, le prometto che domattina me ne andrò alle prime luci dell’alba. Posso pagarla per la sua generosa ospitalità, per favore?-
Posso sentire a pelle il dissenso e il disgusto nei miei confronti, anche se ha gli occhi quasi nascosti dal berretto e la barba che gli copre del tutto il viso.
-Il solito turista idiota che non capisce un cazzo del bosco. Va bene, rimani, sarà divertente sentire le tue urla da poppante echeggiare in tutta la montagna.-
E se ne va così, continuando a borbottare: -Idiota di un turista…”
Continuo a perlustrare i dintorni, sembra uno di quei boschi descritti nelle favole per spaventare i bambini, quando l’eroe, o l’eroina, dovevano addentrarsi nel bosco per trovare la strega.
Non mi stupirei di vedere Pollicino camminare lasciando briciole di pane per ritrovare la strada.
Torno alla tenda, rimango all’aperto, mi sono creato una cucina e una sala pranzo con sassi e tronchi caduti, la sera è scesa presto, mi scaldo una zuppa in scatola e del pane in cassetta, stavolta non temo di spaventare gli animali col mio fornellino da campeggio, e mi posso gustare un pasto caldo.
Mentre mangio scende la notte, lascio accesa la fiamma del fornello per scaldarmi un po’.
Metto la scatoletta vuota e il pane in un contenitore ermetico per chiudere qualsiasi effluvio di cibo che potrebbe attirare gli animali.
“Il solito turista che non capisce un cazzo del bosco”
Ero tentato di dirgli “non sa chi sono io… Vivo nei boschi di tutto il mondo 6 mesi all’anno!” E bla bla bla, ma ho taciuto. Meglio così, sarei stato poco credibile, probabilmente.
Eccola, la sento arrivare. Comincia con il chiacchiericcio incessante della mia mente.
Sono frasi continue, sconnesse, immagini di creature demoniache che escono dalla terra, sono deformi e terribili, ombre che mi ghermiscono, e stanotte anche l’immagine del vecchio che mi prende alle spalle e affonda la lama della sua scure nella mia schiena.
Nessuna distrazione, l’ho scelto io, niente lavoro, niente foto. Solo io e la notte, solo io e la mia paura.
Mi concentro sul respiro, ma riesco a farlo solo per pochi minuti poi mi sembra di sentirmi chiamare, toccare, osservare.
Ritorno sull’aria che entra ed esce dalle narici.
Sussulto, ho gli occhi sgranati, il respiro corto, recito l’OM, porto l’attenzione al suono e alla vibrazione.
Non serve.
Mi chiudo nella tenda e accendo la torcia.
Sono appena le 20, l’alba arriverà alle 6.15 circa.
Respiro.
Rumori e sospiri circondano la tenda, arrivano da tutte le direzioni.
Respiro.
Sono ululati quelli che sento?
Oh no, lupi!
Respiro.
Il canto dei lupi diventa un coro a più voci, sono tanti.
Respiro.
Sento arrivare un attacco di panico.
Morirò.
L’aria non entra, sono in apnea.
Morirò.
Cado nelle braccia della paura.
Perdo il controllo…
Capitolo 12
-Ne ho conosciuti di turisti idioti, ma tu li batti tutti!-
Mi scoppia la testa, mi sembra ci sia qualcuno che si diverte a prenderla a legnate.
Perché c’è il vecchio con la scure?
Dove sono?
Non vedo bene, ho la vista annebbiata ma credo di essere davanti a un camino acceso.
C’è odore di caffè e legna bruciata, e di grappa, sì credo sia grappa.
-Tieni, bevi! Ci si scalda prima da dentro.-
L’odore forte di alcol mi disgusta, mi ricorda quella vecchia spugna di mio zio, pace all’anima sua.
-Bevi!-
Il vecchio con l’ascia insiste, anche se è disarmato sa comunque come farsi ubbidire.
Il caffè è caldo, dolce, forte, alcolico… -santiddio! Questa roba risveglia i morti!-
-Appunto, perché tu cosa sei?-
-Sono morto?-
-Già! Un morto che parla e beve caffè corretto.-
-Come sono arrivato qui?-
-Per fortuna i lupi non mangiano volentieri la carne dei turisti idioti, e non erano così affamati, altrimenti ora saresti davvero un uomo morto!-
-Io non mi ricordo, sono entrati nella tenda?-
-Ma quale tenda! Eri riverso nella neve con la testa rotta a pochi metri da casa mia.-
Mi tocco la fronte vicino all’attaccatura dei capelli, nel punto esatto in cui mi arrivano le legnate, o almeno questa è la sensazione, trovo un cerotto e, sotto il cerotto, un bernoccolo alto 3 cm.
-Ahia!-
Comincio a ricordare ma sono flash, -Devo essere uscito dalla tenda, ma non ricordo.-
-Da cosa stavi scappando?-
Ok, ora ricordo…
-Ci sono delle creature spaventose che mi vengono a trovare tutte le notti. E quando sono nel bosco diventano ancora più orribili. Mi perseguitano. Devo essere scappato…-
Ora penserà che sono pazzo. Idiota e pazzo.
-Non si scappa dai mostri. Corrono alla tua stessa velocità. Prova a scappare dalla tua ombra, se ci riesci.
Ti racconto una storia…-
Capitolo 13
-Chi sei?-
Il vecchio interrompe il suo racconto e sembra molto contrariato per questo.
Mi guarda in silenzio e sorseggia il suo caffè corretto.
-Chi pensi che io sia?-
La sua domanda mi sorprende, sono ancora confuso per via della botta in testa, che forse ho preso perché correvo a tutta velocità senza guardare dove mettevo i piedi, anzi, la testa. Ed è probabile che un grosso ramo abbia fermato la mia corsa delirante.
O, forse, è stato il vecchio a darmi una legnata…
È possibile?
Mi do torto subito dopo aver formulato questo pensiero.
Riporto la mia attenzione al vecchio che, ora, senza il berretto di lana calato sugli occhi, non sembra poi così vecchio.
Chi penso che sia? Che strana domanda.
-Penso che tu sia scappato da qualcosa o qualcuno e ti sia nascosto in questa casa nel bosco.-
-Bene, osservami e guardati intorno, continua la descrizione.-
Continuo ad essere confuso, il caffè alcolico comincia a fare effetto, sento un calore che si propaga in tutto il corpo, anche la testa fa meno male.
-Sei un evasore fiscale? No, ti sei nascosto perché sei una spia russa… ti hanno scoperto e hai dovuto cambiare identità!-
-Quindi, la ragione del mio modo di vivere, secondo te, è forzata da eventi esterni che mi obbligano a nascondermi. Interessante. In realtà non sono un evasore e nemmeno una spia. E temo che tu non regga molto bene l’alcol. Da come mi vedi, vedi te stesso.-
-Sono confuso, non capisco, da come ti vedo, vedo me stesso?-
-Cerchi la solitudine nei boschi, pur avendo una paura folle del buio, ma questo non perché tu voglia affrontarla, ma perché ti stai punendo. Anche la solitudine è una punizione. Cos’hai fatto di così terribile?-
Non rispondo, sto zitto, mi si contrae lo stomaco, sto per vomitare…
Capitolo 14
-La mia solitudine è una scelta d’amore, amo questi luoghi, conosco ogni albero e ogni creatura nel raggio di almeno 10 km. Vieni a vedere-; apre la porta e mi invita a guardare fuori, ci sono cervi e daini che mangiano fieno appeso agli alberi tramite una legatura che avevo visto fare nei maneggi, e poi piccole creature che fanno avanti indietro con le guance piene di semi.
-… Non sto scappando da niente e nemmeno mi nascondo. Mia figlia trascorre qui ogni momento libero. Non sono un uomo fuggitivo, e non vivo isolato o nascosto, sono un uomo che ama. Mi hai chiesto chi sono, poco fa, potrei dirti che mi chiamo Fabio e vivo qui da dieci anni, ma, la risposta più giusta è: sono un uomo che ama.-
Mi sono seduto e ascolto quell’uomo, a volte mi sembra irreale, e mi chiedo se non lo sia davvero.
Si chiama Fabio, strana coincidenza.
Non mi va di dire niente, sono tanto stanco.
Il fuoco sembra avere una volontà propria, un momento si alza in lingue danzanti e subito dopo si cheta e chiede altra legna che il vecchio gli offre con un gesto quasi meccanico mentre sceglie i ciocchi da una cassa di legno.
Ho ancora lo stomaco sotto sopra e, mentre osservo distrattamente ciò che mi accade intorno, ritorno ai miei 5 anni, quando mia madre si accorge che ho fatto di nuovo la pipì a letto.
Ne ho prese così tante quella notte.
Mi sono svegliato al pronto soccorso, ho visto mio padre con la testa tra le mani… mi sembra di vederlo ancora mentre mi dice con la voce rotta che lui non può occuparsi di me, e che la mamma non sta bene…
Capitolo 15
Mi aveva detto che sarei stato con i nonni per un po’, solo finché non trovava un lavoro migliore.
Non accadde mai, ho vissuto con Clementina e Archimede fino alla maturità, e poi ho cominciato a lavorare come manovale nella impresa edile di mio padre, che nel frattempo si era creato un buon business, intanto studiavo Economia all’Università.
Mia madre faceva la sarta in casa, lavorava sempre, ogni tanto andavo a trovarla, parlavamo di cose banali e lei non mi guardava mai.
Mi preparava il tè, mi faceva un panino, senza mai alzare lo sguardo, e ogni volta mi diceva: -vedi? Capisci perché non potevo occuparmi di te, guarda quanto lavoro, e tuo padre non c’è mai. Ora vai dai nonni, torna la prossima settimana, così mi racconti le tue novità.-
E io me ne andavo, sapevo che la mamma aveva dei problemi, non era il lavoro, semplicemente non aveva le capacità per crescere un figlio.
Mio padre era un uomo semplice, un brav’uomo, ma anche lui non è riuscito a sentirsi all’altezza di crescermi, è rimasto sempre accanto a mia madre in questa farsa di matrimonio, dove condividevano solo un tetto sulla testa, “ho fatto il mio dovere da uomo”, mi diceva.
Quel tè e quel panino, e i soldi per la scuola, erano il loro modo di dirmi ti voglio bene, ed io lo sapevo e apprezzavo, sono nato vecchio, non ho mai avuto bisogno di tanti discorsi, sapevo e basta.
Eppure, qualcosa dev’essere rimasto, la paura del buio è la perdita totale di controllo venivano da qualcosa che non avevo elaborato, o che non poteva essere elaborato.
Fabio, il vecchio, mi guarda, fuori c’è ancora buio.
-Il buio è cosa viva, non è solo assenza di luce, ha una sua storia, una sua sostanza. Il buio che esperisco io non è il tuo stesso buio, sono diversi. Sei d’accordo?-
-Sì.-
-Vieni con me.-
Siamo usciti dopo esserci imbacuccati a dovere, io con sciarpa e cappello prestati dal Fabio vecchio, odorano di legna bruciata e di vento.
Ci siamo addentrati nel bosco, mi ha portato nel luogo in cui mi ha trovato, nella neve c’è una macchia scura di sangue. Mi avvicino al ramo che sporge, in linea perfetta con la mia fronte.
Ci addentriamo ancora, non ho paura, forse perché non sono solo.
-La paura crea illusioni.- Mi dice dopo un lungo silenzio.
Arriviamo alla tenda, è aperta e si nota il trambusto che devo aver fatto per uscire, la torcia è ancora accesa.
-Si dice che l’odio sia l’opposto dell’amore; secondo me, invece, è la paura. L’amore dissolve le illusioni, la paura le crea. Con l’amore quell’albero è una creatura sacra e magnifica, i rumori del bosco sono il lavorio incessante delle creature di Madre Natura, perché, se per qualcuno la notte è la fine del giorno, per altri è l’inizio. Se non ami abbastanza, ti senti solo un turista, non ti senti parte di quello che ti accade intorno, e temi ogni ombra, ogni sussurro, ogni creatura del buio.- Ha guardato il cielo, l’ho fatto anch’io, si sta schiarendo di qualche nota, la notte è finita.
-Torno a casa, tu rimani quanto vuoi, se te la passi male vieni a trovarmi.-
-Grazie.-
Appena si è allontanato ho pianto, non sono triste, sono commosso, sopraffatto da mille emozioni, sono grato…
Capitolo 16
La testa mi fa male, un male del diavolo.
Ho dormito tutto il giorno e la notte è scesa senza che me ne accorgessi, servirebbe un po’ di quell’intruglio di alcol e caffè.
Accendo la lampada, la torcia è andata, ho altre batterie ma non credo di uscire.
So che i mostri arriveranno, sibili, sussurri, parole sconnesse, terribili passi nel buio… mi preparo alla mia notte da incubo, prendo il cellulare e lo accendo, è spento da due giorni, il bosco si riempie di “biz-biz” dei messaggi che arrivano in massa, metto il silenzioso.
Messaggi di Raphael, gli rispondo al volo “sono nel bosco”, gli mando la posizione.
Messaggi e chiamate di lavoro, me ne occupo domani.
Apro quel messaggio “come te la passi?”
Non voglio parlarle di me, ma vorrei sapere come sta, cosa sta facendo, sono le dieci di sera, forse è troppo tardi. Spengo il telefono e lo rimetto nello zaino.
Esco dalla tenda, la notte è bianca, la luna splende alta nel cielo e fa brillare la neve, è bellissimo.
Gli uccelli notturni lanciano le loro grida, intorno a me c’è vita, un incessante e meticoloso susseguirsi di attimi, e io sono parte di tutto questo?
Sì, sono parte di tutto questo, adesso lo sento, poi non lo so se tra poco tornerò a fare il turista idiota.
Ripenso a Fabio, il vecchio, non mi ha chiesto chi fossi o il mio nome, mi ha accolto nella sua casa e, se non fosse per lui, sarei ancora riverso nella neve da ieri sera.
Vengo salvato spesso nella mia vita, ad un certo punto c’è sempre qualcosa che mi trascina in salvo.
E adesso sono qui seduto su un sasso, con le chiappe ghiacciate a sentirmi l’uomo più fortunato della Terra mentre ascolto il vociare degli animali notturni, e guardo il bosco che brilla.
Sono in paradiso, sono a casa, l’incantesimo è finito, il bosco e i suoi abitanti sono tornati al loro aspetto reale, e anch’io sto ritornando reale.
Capitolo 17
La sto aspettando, o meglio, l’aspettavo, ma non è arrivata.
Non vorrei entrare nella tenda, qui fuori è di una bellezza mozzafiato.
L’aspetto qui ma sento che non arriverà, non stanotte.
Non credevo possibile che, per non cadere nella paura, bastasse portare l’attenzione su una cosa così banale:
“Tu sei nel tutto e il tutto è in te, non c’è separazione”, quante volte l’avevo sentita questa frase? Centinaia!
E ogni volta storcevo il naso considerandola solo una frase da fricchettoni hippie.
Ma c’è qualcosa di più…
Amare questo Tutto.
Essere amore.
Ho amato la luce di tutte le albe alle quali ho assistito e, a causa delle mie notti da incubo, ne ho viste tante, quasi tutte le aurore dei miei 50 anni. E ogni volta tiravo un sospiro di sollievo, dopo che i mostri mi avevano tenuto sotto scacco tutta la notte.
E adesso sono qui, al buio, con le chiappe immerse nella neve in uno dei boschi più selvaggi e intricati mai visti.
Sento rumori arrivare da ogni parte, bramiti, grida, sgranocchiamenti, passi furtivi, respiri, ali che sbattono, pigne che cadono, rami che scricchiolano e sembra anche che qualcuno dica il mio nome, forse è una civetta o un gufo.
Eppure, non sono caduto nelle braccia di Madame Paura, sono vigile, attento, presente, e mi godo la vita che freme di notte.
Il bosco è vivo.
Il buio è cosa viva, ha detto il vecchio Fabio, ed è vero, il buio è vivo, ha una personalità e un intento: far vedere la realtà, farmi conoscere la strada per raggiungere la stanza buia, quella che non avrei mai voluto aprire.
L’ho aperta.
E al suo interno c’è un bambino che non voleva dormire per paura di fare la pipì a letto.
Povero piccino, non aveva il controllo di questa sua funzione, perciò, ha posto il controllo su tutto il resto, lasciando alla notte il compito di farlo impazzire per frantumare le sue rigidità…
Lo amo, amo quel bambino.
È la prima volta che sento questa compassione, no, non è compassione, è amore puro e incondizionato. Respiro.
Mi sembra di farlo per la prima volta. Come se fossi nato adesso.
Sono le 3 di mattina, ma non m’importa, prendo il telefono, lo accendo, apro quel messaggio, rispondo:
-Ho la testa rotta, ma sto bene. Sono nel bosco e assurdamente arriva il segnale, debole, ma arriva. Tu come stai? Come te la passi?-
Invio.
Metto il telefono nello zaino.
Respiro, quanto è bello respirare, sono in pace, sorrido e penso a lei, Sara, pronuncio il suo nome a voce alta -Sara-, sorrido ancora, sembro un idiota.
Sì, posso anche fare l’idiota!
Mi sento come un ragazzino innamorato.
Lo zaino vibra, prendo il telefono in fretta, ma mi tremano le mani, è una chiamata…
Capitolo 18
-Come sarebbe che hai la testa rotta?-
La sua voce è assonnata, dolce, è sempre dolce, e parla piano. Dio quanto mi è mancata!
-Niente di grave, sto bene.-
-Dio mio, Fabio, mi hai spaventata, ma dove sei?-
-Qui- le mando la posizione.
Dopo qualche secondo.
-Ma sei nel nulla cosmico! È un miracolo che arrivi il segnale.-
-Già. Ti ho svegliata?-
-Sì. Spengo sempre il telefono prima di dormire, di solito, ieri sera non l’ho fatto. Chissà perché… Stai lavorando?-
-Scusa. No, niente lavoro, beh, diciamo che sto lavorando su me stesso.-
Non risponde subito, la sento respirare, la immagino seduta a letto, spettinata, oddio…
-E la botta in testa fa parte di questo lavoro?-
-Parte integrante direi.-
-Sei sicuro di stare bene?-
-Mai stato meglio. Tu come te la passi?-
-Bene, solite cose, in queste gabbie di pazzi che chiamano città. Mi piacerebbe essere lì con te… Cioè, in un bosco sperduto, come te. Dev’essere davvero… bello.-
La sua voce è sempre più flebile, sta cercando di non sembrare troppo coinvolta, sento che cerca di trattenersi, la capisco, le ho fatto credere che non me ne importasse. Se sapesse…
-Anch’io vorrei che tu fossi qui con me…-
Silenzio, sospira…
-La botta che hai preso in testa sembra grave.-
Ridiamo, me la merito la sua titubanza, non sono mai stato un uomo facile. Con lei, poi, sono sempre stato scontroso. Non so cosa ci trovi in me.
Le faccio una domanda che la farà parlare per un po’, le chiedo della sua associazione e degli eventi che ha in programma. Parte a raffica, così posso ascoltare la sua voce.
Ci siamo conosciuti perché mi ha contattato per una mostra di fotografia, dovevo essere l’ospite d’onore.
E’ cominciato tutto così, e da quel giorno lei vive sotto la mia pelle, lei è parte di me, ma ancora non lo sa.
Capitolo 19
-Sta nascendo il sole.-
-Sì, lo vedo dalla mia finestra. Com’è l’alba dalla prospettiva di un bosco sperduto?-
-Provo a inviarti una foto, se la connessione me lo permette, solo un secondo.-
-No, voglio che me la racconti.-
-Non sono bravo con le parole.-
-Per favore.-
Mi prude la testa, mi tolgo il berretto di lana, e comunque la massa di ricci impazziti e crespi che ho in testa mi terrà al caldo.
-Ehm… Dunque, non trovo le parole e tu non dovresti essere così convincente con il tuo “per favore”…- sto scimmiottando una voce stridula per prenderla in giro, ma la sua voce, in realtà, è una carezza calda.
-Non credevo di avere un “per favore” così convincente, buono a sapersi. Avanti, non fare il timido.-
Sospiro rassegnato, guardo l’aurora e racconto: -il sole bambino è ancora nascosto dietro le conifere, non si vede ma, complice la neve diamantina, tutto intorno sembra esserci un riverbero rosa. Fili di luce hanno trovato la strada tra i rami e fendono lo spazio. Ehhh, e poi, beh, non credo esistano parole per spiegare questo miracolo. O forse esistono, ma non le conosco. Per capire questa meraviglia dovresti essere qui.-
Oh sì, come vorrei che tu fossi qui.
Ci mette un po’ a rispondere…
-Te la sei cavata molto bene, ma-
-Ma?-
Fine del segnale.
Mi sposto, mi arrampico su un albero e scendo pieno di escoriazioni alle mani, ma niente, non riesco a richiamarla.
Mi rassegno, smonto la tenda, raccolgo i miei stracci e il mio stomaco brontola impazzito, sembra il ruggito di un leone, non mangio da 24 ore.
Decido di passare da Fabio il vecchio, voglio ringraziarlo ancora, e magari condividere un pasto caldo.
Trovo le nostre orme nella neve, in realtà si vedono le orme di un solo paio di piedi, è strano.
Continuo, sono un po’ confuso, questo bosco è un intrico, perdo le orme.
Uso la bussola, cerco di capire dove sono.
Proseguo.
Ecco la piccola baita di pietra!
Ma più mi avvicino e più rimango sgomento…
Capitolo 20
La casa sembra abbandonata da anni, forse ho sbagliato strada, non è la casa giusta, mi guardo intorno, faccio marcia indietro, trovo la macchia scura del mio sangue.
No, non ho sbagliato.
In fondo, la casa l’ho vista col buio, forse è solo incuria.
Busso al portone di legno, è mezzo rotto, lo apro, la porta d’entrata è chiusa da una catena con lucchetto.
Sono sempre più confuso.
Faccio il giro della casa, gli scuroni di legno sono sfasciati dal tempo, trovo una finestra sventrata da un grosso ramo caduto dal grande larice dietro la casa, il ramo è in fase di decomposizione, e caduto da tempo.
Con fatica mi libero il passaggio.
Entro stando attento ai vetri rotti.
Ci sono escrementi di uccelli e nidi nelle fessure delle travi del soffitto.
Accendo la torcia.
Ci dev’essere stato un gran via vai di piccoli roditori in cerca di riparo.
Continuo la mia esplorazione, c’è una camera da letto ancora ammobiliata, ordinata, ma ricoperta di uno strato di sporco e polvere.
Entro in cucina, il camino è freddo da chissà quanti anni.
C’è un berretto di lana impolverato e mangiucchiato dalle tarme, agganciato a un chiodo piantato nel muro, lo stesso che avevo visto in testa al vecchio Fabio.
Riconosco la vecchia poltrona sulla quale mi sono svegliato, la cassa di legna vicino al camino.
Sul tavolo davanti alla poltrona ci sono due tazze, riconosco la tazza dalla quale ho bevuto l’intruglio di alcol e caffè.
Tutto è coperto da uno spesso strato di polvere e anche qui gli uccelli e i roditori hanno lasciato i segni del loro soggiorno prolungato.
Il cuore sembra uscirmi dalle orecchie.
Questa casa sembra abbandonata da almeno una trentina d’anni.
Com’è possibile?
Esco in fretta, mi sembra di svenire, ogni cosa mi sembra irreale, io stesso sono irreale. Cosa è accaduto, ho sognato?
Mi tocco la fronte, il taglio è aperto, sono gonfio e mi fa ancora male.
Mi gira la testa, mi siedo sopra una vecchia catasta di legna a debita distanza dalla casa, e la osservo.
Cerco di ricomporre il puzzle dei ricordi del giorno precedente, da quando ho incontrato il vecchio nel bosco a quando mi sono svegliato su quella poltrona davanti al camino acceso.
Ora è tutto così confuso, mi guardo intorno, sono dentro un sogno…
Capitolo 21
Cammino senza guardare dove metto i piedi, mi devo sforzare di rimanere concentrato sul tragitto per non perdermi in questo bosco selvaggio e senza sentieri.
Dopo il sole mattutino c’è stato un calo improvviso della temperatura con successiva perturbazione.
Scende la neve in grossi fiocchi, in breve tempo ha coperto tracce, rami caduti e ogni cosa.
Osservo tutto intorno a me, mi sento parte di un altrove, prendo una manciata di neve e mi tampono la ferita, pulsa da morire, cerco di resistere, non voglio prendere antidolorifici.
Mi trascino alla jeep, non mi sono mai sentito così stanco.
Salgo in macchina e ringrazio il sedile comodo, riprendo fiato.
Guardo il cellulare, -solo chiamate d’emergenza-, ed è pure scarico.
Penso di aver sognato anche Sara e la nostra telefonata.
Non mi stupirebbe.
Non so più cosa sia reale e cosa no.
Mi guardo nello specchietto retrovisore, il taglio è davvero brutto, però esce essudato, è un buon segno, il mio corpo sta pulendo la ferita.
Parto piano, ma non verso casa, sono una grandissima testa dura, devo capire e andare a fondo.
Arrivo al Municipio della zona, si trova in un paese piccolo e pulito nell’altopiano del monte che lo accoglie. Chiedo informazioni e spiego la situazione, dico che sono interessato ad acquistare l’immobile, non è vero ma non mi è venuta una scusa migliore.
Vengo mandato dalla persona che mi dovrebbe aiutare.
Sugli archivi del computer non trova nessuna casa.
Mi lascia solo in ufficio e sparisce dietro una porta a cercare nel vecchio archivio cartaceo.
Ne approfitto per guardare il cellulare, ma solo per avere la conferma di non essermi sognato la telefonata con Sara, niente da fare, il telefono si spegne, è completamente scarico.
La signorina dell’archivio torna dopo un quarto d’ora.
-Eccolo qua, scusi l’attesa, questa casa non ha nessun proprietario, si trova in territorio comunale, il sindaco in carica nel 1965 l’aveva messa all’asta, ma nessuno si è mai interessato, credo sia troppo isolata e difficile da raggiungere.-
Continua a leggere i documenti e mi passa le planimetrie. Sì, è proprio la casa del vecchio Fabio.
-Aspetti, qui c’è un vecchio documento di proprietà che risale al 1872, ma è illeggibile, c’è anche un verbale allegato.-
Me lo avvicina, cerco di leggere, è scritto a pugno su carta da lettera, sarebbe impossibile capirci qualcosa se non fosse perché sono un pignolo testa di roccia.
-E’ un testamento, un lascito, forse riesco a leggere…
Capitolo 22
Sono in attesa al pronto soccorso, avrei voluto evitare questo posto ma il taglio fa proprio schifo.
Ho il numero in mano, avrò una decina di persone davanti, mi aspettano ore interminabili, scatto foto senza farmi notare, adoro l’espressione della gente in attesa, c’è chi cerca con gli occhi qualcuno con cui conversare, altri assorbiti dallo schermo del cellulare, ma c’è ancora chi riesce a guardarti negli occhi, come la signora anziana che mi sta fissando, le faccio un sorriso e un cenno di saluto.
Poi c’è chi rimane a testa bassa attaccato ai suoi pensieri come se potessero scappare, o uscire dalla testa ed essere visti attraverso gli occhi, e allora giù lo sguardo e bocca chiusa.
Poi c’è gente che si estranea totalmente, si vede dall’espressione, di solito hanno la mandibola rilassata e gli occhi lontani, guardano senza vedere.
Mi perdo anch’io, vago lontano nei ricordi, ripenso a lei, vorrei poterle parlare, sono curioso di tutto quello che la riguarda, vorrei riempirla di domande, mi trattengo per non sembrare un maniaco, ma vorrei tanto sapere cosa pensa, le sue opinioni sulla vita, sul mondo.
Durante l’evento organizzato dalla sua associazione, che mi vedeva come ospite d’onore per una mostra fotografica alla fine di un corso per principianti, siamo stati insieme tutta la serata, non riuscivo a starle lontano.
Ruotavamo l’uno nello spazio dell’altra come se ci fosse qualcosa che ci riportava sempre vicini.
Mi abbassavo per parlarle all’orecchio, con la scusa di non disturbare i visitatori, ma era solo una scusa per avvicinarmi e respirare il suo odore, per sentire il calore del suo corpo, per farmi solleticare le labbra dai suoi capelli.
Poi ho rovinato tutto, come faccio sempre.
La paura di amare dev’essere come la paura del buio, è una paura che crea illusioni.
Mi creo mostri fatti di niente, e li temo come se fossero reali, ma i mostri li conosco, ci ho a che fare da sempre. Con l’amore non so cosa aspettarmi…
Capitolo 23
“Mi creo mostri fatti di niente, e li temo come se fossero reali, ma i mostri li conosco, ci ho a che fare da sempre. Con l’amore non so cosa aspettarmi…”
Mi sono portato a casa 5 punti di sutura e una cura antibiotica, che non prenderò, ovviamente.
Metto in carica il telefono e mi butto a letto vestito e puzzolente, sono morto.
Sto guadando il fiume, vedo la coppia di cigni che nuota, hanno 3 pulcini, sono bellissimi. Mi lascio portare dalla corrente, il fiume trasporta la mia imbarcazione di legno verso non so dove, sono senza remi, non potrei comunque cambiare il percorso.
Sono in balìa di cose ed eventi che non posso più controllare, mi rassegno e osservo il paesaggio delle rive, è rigoglioso, sembra primavera, l’inverno è passato.
Vorrei potermi fermare, raggiungere la riva e godermi il bosco, vedo Fabio il vecchio, voglio raggiungerlo, ho tante cose da chiedergli, uso le braccia come remi e cerco di avvicinarmi alla riva. Imbarco acqua, in breve tempo la rudimentale canoa di legno sprofonda.
Annaspo, cerco di raggiungere la terra, non posso, sono tenuto sott’acqua da due braccia, so chi è, mi ribello ma ogni sforzo è vano, sono debole, la corrente del fiume decide per me.
Vorrei rimettere i piedi sulla terra, sono un uomo di terra, l’acqua non è il mio elemento, non voglio perdere il controllo, non voglio provare niente, non voglio ricordare niente!
Vado sempre più giù, non respiro. Ogni sforzo per risalire è inutile, sto per morire.
Mi sveglio con un urlo, incamero aria a bocca aperta, stavo per soffocare, mi guardo intorno, per un attimo non so dove sono.
Sono completamente fradicio, mi faccio violenza e mi butto sotto la doccia.
Ripenso al sogno, se rimanevo buono sulla canoa non sarei finito sott’acqua, ma perché quell’uomo mi teneva sotto, chi è davvero Fabio il vecchio?
Non ho il controllo di niente, non l’ho mai avuto, ora lo so, e se ho creduto di essere l’unico conducente della mia vita, beh, mi sono sbagliato.
Ora basta, in un attimo sono vestito, vado da lei.
Apre la porta alla primo colpo di nocche, il mio cuore perde un battito.
Mi abbraccia, anzi, mi stritola.
Mi lascia solo per guardarmi in viso e… sgridarmi:
-Tu sei una testa di cazzo da guinness, ne ho conosciute di teste di cazzo ma tu le batti tutte!-
-Immagino che sia così.-
-E’ caduta la linea ed eri ferito e non hai più richiamato, ero fuori di me dalla paura! Ho chiamato il soccorso forestale, e non potevano intervenire perché non erano trascorse sufficienti ore, ma ti rendi conto?-
Singhiozzava, e mi picchiava il petto arrabbiata, ma non per farmi male, come per dare enfasi alla sua preoccupazione.
Aveva gli occhi rossi, ho capito che l’unica idiozia che abbia mai fatto nella mia vita è stata starle lontano e farla soffrire.
-Scusa- mi avvicino, le predo le mani, -scusa, scusa, scusa, scusa- la prendo tra le braccia piano, sono a casa finalmente, le asciugo le lacrime con le labbra, le bacio le guance, gli occhi, e poi la bocca. Sì, sono a casa.
Guado il fiume, non ho remi, sono in balìa delle correnti…
Capitolo 24
“Io, Fabio Verdi, lascio l’intera proprietà comprensiva dei 20 ettari di bosco circostante, al primo uomo o donna che si presenterà mostrando interesse sincero per la casa. Sono un uomo solo, non ho eredi, l’unica figlia Eleonora Verdi, è morta che era ancora bambina.
So che ci vorrà tempo, ma so anche che qualcosa di soprannaturale spingerà la persona giusta davanti alla mia casa.
Questo forestiero arriverà stremato dalla vita, stanco, forse ferito, e un giorno comprenderà che proprio ciò che sembrava qualcosa da cui fuggire, in realtà, sarà qualcosa da cui vorrà tornare.”
Ho perso il conto, credo che questa sia le ventesima volta che leggo questa lettera. Un vero e proprio testamento registrato dal notaio, è davvero incredibile.
Ho scoperto anche che l’asta fu organizzata per attirare il possibile erede, visto che la casa stava mostrando i primi cedimenti per incuria.
Nessuno si fece vivo perché giravano strane voci, molti escursionisti parlavano di strane presenze intorno a quella casa, come dare torto ai poveri malcapitati?
L’inverno sta lasciando il testimone alla primavera, fa ancora freschino ma si sente la rinascita imminente.
-E’ bellissimo qui!-
-Vedremo se sarai della stessa opinione anche stanotte.-
-Io non ho paura del buio, a differenza di qualcuno…-
Sorrido, lei sa tutto, adoro essere vulnerabile con lei, non m’importa di fare finta di essere l’uomo che non sono. Mi sono mostrato in tutta la mia imperfezione, credo di aver addirittura calcato la mano e di essermi mostrato anche troppo “nudo” e disarmato.
Eppure, Sara è ancora qui con me.
Stiamo facendo un tratto di strada in mezzo al bosco per raggiungere “La casa dell’Uomo Verde”, l’ho battezzata così.
Dopo un po’ di mesi di attese e noiosa burocrazia, ora sono ufficialmente il proprietario di questo rudere.
Non so se sentirmi fortunato o sfigato, lo scoprirò con il tempo.
Lei non vedeva l’ora di vederla, le ho raccontato tutto di quella strana notte, sembrava una bambina che ascolta la favola più avvincente mai raccontata.
Mi capita spesso di ricordare le parole di Fabio il vecchio: “Se non ami abbastanza, ti senti solo un turista, non ti senti parte di quello che ti accade intorno, e temi ogni ombra, ogni sussurro, ogni creatura del buio”.
E allora mi chiedo se amo abbastanza e, da qualche mese, la risposta è sì…
FINE
Ti auguro di amare e di guardare la paura per quello che è davvero: un’illusione.
-Enrica Zerbin