Ho cominciato a perdere le cose molto presto, probabilmente dovevo familiarizzare con la privazione, visto che ho perso l’infanzia quand’ero bambina.
L’infanzia è qualcosa che non puoi più riavere; è come ritrovare un paio di jeans di quando eri dieci chili in meno, non serve a niente.
Sono nata nel ’73, in un periodo storico che soffriva ancora per la separazione dei Beatles, era reduce dalla libera espressione di Woodstock e iniziato alla libertà dalla nuova legge che permetteva il divorzio.
Anni intensi per molti aspetti, grandi battaglie sui diritti furono vinte.
Gli anni bollenti, per me, passarono quasi del tutto inosservati, guardati di sottecchi alla televisione, con il sottofondo dei commenti borbottati dai familiari che un po’ non capivano e un po’ disapprovavano.
Per loro era più facile biasimare, capire invece costava troppa fatica e, dopo aver lavorato tutto il giorno nei campi o aver calato reti e raccolto reti nella laguna, non avevano né forza né tempo per capire.
Da ragazzina ingenua e parecchio stralunata, il mondo fuori dal paesino e dalle opinioni incomprensibili dei familiari, sembrava più che altro un universo parallelo nel quale non si poteva entrare e che mi veniva solo mostrato dallo schermo TV.
La cosa che più lasciava perplessi, noi figli della legge del divorzio, era vedere le nostre madri vivere situazioni al limite della sopportazione umana, dove ti chiedevi se il matrimonio fosse quella cosa strana che permetteva agli uomini di comandare le donne, di trattarle come serve, di sminuirle, offenderle e fregarsene della crescita dei figli fino all’età da lavoro. Solo allora si diventava visibili per i padri, specialmente il giorno di paga.
Se per i primi 14 anni di vita maturavamo la convinzione di essere invisibili, al primo giorno di lavoro ci si accorgeva di non esserlo più.
Con i vantaggi e gli svantaggi.
Mio padre era il fiume, il grande Fico fuori casa dove nascondevo foglietti e segreti, il canale grande per l’irrigazione che aveva ascoltato le risate e i litigi, il ponte stretto che aveva testato il mio coraggio e il campo d’erba medica che aveva creato un giaciglio per nascondermi dalla delusione.
E a fine giornata prendevo su da terra la pazienza, scrollavo l’allegria dai vestiti e rincasavo. Costretta ad essere spettatrice inerme dell’esistenza di una madre che cercava di fare del suo meglio per crescere figli sani e giusti, già vecchia a quarant’anni, privata di femminilità e sorrisi; li aveva perduti, come io avevo perduto la capacità di sognare solo guardando il suo viso triste.
Erano gli anni dell’ombelico di Raffaella Carrà e i vestiti sporchi di terra di mia madre che tornava dai campi. Dove stava la verità? Dov’era il punto di congiunzione tra questi mondi paralleli?
A quel punto avevo già perso l’infanzia, l’interesse di mio padre, i sogni, i sorrisi di mia madre e le risposte.
Non li ho mai cercati, non perché fossero insignificanti, ma ero così attenta a non perdere altre cose che mi mancava il tempo.
E poi ho dimenticato.
Le cose perdute si dimenticano, credo che sia la cosa peggiore.
Non so bene perché succeda, voglio dire, non era facile vivere senza il sorriso della figura femminile più importante della mia vita; eppure avevo imparato a fare senza, mi destreggiavo abbastanza bene anche senza infanzia.
Senza sogni meglio ancora, perché i giorni si susseguivano con una passività rassicurante che trasformava, quel piccolo mondo di provincia, in un luogo confortevole, una roccaforte. Ma da cosa proteggeva?
Da niente, semmai teneva lontana la vita, la sofferenza anche, ma più ancora la possibilità di essere se stessi senza sovrastrutture inculcate da qualcun altro.
Nel paese le sovrastrutture erano create dalla convinzione che tutto quello che si trovava all’esterno di tale perimetro, fosse: pericoloso, licenzioso, senza sapore e soprattutto lontano.
Talmente lontano da essere irraggiungibile, quasi utopistico, perché noi gente di paese eravamo persone semplici, senza grilli per la testa, bravi lavoratori e molto legati alle tradizioni tramandate dai nostri padri, che prima di noi avevano portato avanti le loro obsolete leggi patriarcali.
E qui entrava in gioco la Luna, sì perché nelle notti tristi e senza sogni, Lei mi sussurrava che non era vero. E che la forza che regola i cicli, le maree, i sogni e la poesia della gente, stava tra la finestra della mia stanza e il cielo.
Ciononostante sono orgogliosa di affermare che non ho mai perso la paura e il coraggio, perché se è vero che ho perso un sacco di cose, è vero anche che sono sempre stata egregiamente paurosa.
Serve la paura per il coraggio, non ci sono alternative, se non si ha paura non si può essere coraggiosi.
Mi sono nascosta per tanti anni, tutti quanti, e la paura mi teneva per mani e piedi, stringeva e strattonava. Poi il coraggio ha prevaricato, non perché avessi meriti di qualsiasi tipo, semplicemente dovevo scegliere tra morire e avere coraggio.
Ho scelto il coraggio.
Spesso lo perdo, tutti i santi giorni!, ma poi lo cerco, non mi permetto di dimenticarlo. Torno sui miei passi, guardo la Luna e lo ritrovo sempre, di solito si nasconde tra la paura e la crepa nella fortezza, quella fatta a suon di testate.
Ricapitolando: ho perso l’infanzia, i sogni, l’interesse e i sorrisi. Ma ho ancora il coraggio!
A proposito, dove l’ho messo?
Enrica Zerbin